Redazionale tratto da: Venezie Post
27 gennaio 2015
Il presidente del gruppo Gran Moravia festeggia la vottoria di Tsipras che a suo giudizio segna un punto di non ritorno nel processo di disfacimento della moneta unica
«Il voto in Grecia è una pietra miliare verso il fallimento dell’euro. Dimostra l’incoscienza dei creatori della moneta unica, perché finché i popoli possono votare non esistono impegni assunti dai governi, che non possano essere disattesi da quelli successivi». Roberto Brazzale, presidente della vicentina Gran Moravia, è un fiume in piena. La schiacciante vittoria della sinistra di Syriza in Grecia, sul programma politico di ripudio degli impegni assunti da Atene verso la Troika, a suo modo di vedere è la
dimostrazione evidente dell’impossibilità della moneta unica. Impossibilità che l’economia italiana sta scontando con una devastante distruzione del sistema produttivo e la recessione più pesante della sua storia, e che tuttavia, ammette Brazzale, «richiederà forse molto tempo per arrivare all’esito, perché su questo progetto fallimentare l’investimento politico è stato troppo alto e le resistenze sono enormi». Ad ogni modo, ora è chiaro a tutti che gli Stati sono fatti di elettori in carne ed ossa, non di equazioni matematiche e gabbie contabili, perciò l’euro – sostiene Brazzale – non resisterà.
Presidente, a scommettere sull’uscita della Grecia dall’euro sono in pochi, perché lei dice che questo voto è un passo fondamentale del fallimento della moneta unica?
«Perché una moneta unica è possibile solo laddove c’è uno Stato unico, ma in Europa un unico Stato non c’è e non ci sarà mai perché nessuno realmente e giustamente lo vuole. L’euro è attualmente un demenziale regime di cambi fissi in attesa di uno stato che non verrà mai. il dramma della nostra economia è la parità lira/marco a 989,99 lire per un marco tedesco che dura da ormai 17 anni, durante i quali i prezzi in Italia e Germania si sono mosse in direzioni totalmente opposte e se fossero stati possibili gli aggiustamenti valutari che l’euro ha artificiosamente congelato, oggi per un marco occorrerebbero circa 1.500 lire, e l’economia vivrebbe in un contesto concorrenziale sano. Altro che la parità col dollaro: la naturale disparità con il marco ci serve. Aggiustamenti non è una parola casuale, rende conto di quel principio di giustizia che la fluttuazione delle valute consente correggendo continuamente gli squilibri generati dalle politiche di uno stato. Una giustizia che con l’euro è stata tolta a tanti Stati e a tanti popoli, specialmente alle classi produttive. Ma la Grecia ci ricorda che i popoli votano, e quando gli Stati marginali dell’area vengono troppo penalizzati dall’austerity nel tentativo di ripagare l’eccesso di debito improvvidamente erogato dai paesi più forti, la reazione politica arriva, anche scomposta. La Grecia è solo il primo passo di un cammino che porterà alla fine di questo sistema disastroso di cambi fissi che erroneamente chiamiamo moneta unica».
I fautori della moneta unica ammettono che il sistema così com’è non funziona, e proprio per questo indicano la strada dello Stato unico. Perché lei non crede a quel progetto?
«Uno stato unico non ha senso perché i nostri popoli sono troppo diversi e stanno bene in un’ area economica e sociale comune ed aperta, ma non certo in un unico stato. La BCE ha dimostrato che la Germania andrebbe in minoranza e dovrebbe subire le decisioni di popoli che hanno cultura totalmente diversa. Giustamente non accetterebbe mai, e così vale il reciproco. Finiamola di giocare con le favole irresponsabili. L’euro potrebbe funzionare solo tra paesi omogenei, per esempio Germania e Olanda, ma non certo tra Germania ed Italia: già in Goethe lo si capiva, forse già in Tacito. Siamo troppo diversi e non c’è vantaggio per nessuno ad unirsi. Chi deciderebbe come dev’essere la gestione della moneta? Secondo la filosofia deflattiva caratteristica dei tedeschi cultori del risparmio e del lavoro o secondo le necessità della spesa pubblica assistenziale italiana che richiede continui aggiustamenti compensativi del cambio? I tedeschi hanno ragione a dolersi delle recenti scelte BCE, perché violano i patti di Maastricht, ma l’errore lo hanno commesso loro quando ci hanno fatto entrare nell’euro nonostante tutti i nostri parametri fossero già fuori. Un’ingenuità colossale che pagheranno cara, perché è sempre il creditore il soggetto debole. L’Italia non ha mai rispettato quei parametri e mai li rispetterà, tantomeno con la parità di cambio col marco. Perciò l’unica soluzione per salvare il salvabile da questo errore storico chiamato euro è tornare agli aggiustamenti valutari tra le monete dei diversi Stati, pagando il conto che serve e sapendo che i danni già si sono creati in precedenza e continuano a crescere. Non è da farsi illusioni, oggi gli autori del disastro dell’euro sono i candidati al Quirinale, e faranno di tutto per prorogare l’euro e scaricarne la colpa sui popoli che, diranno, non ne sarebbero stati all’altezza».
In effetti la sua posizione ricalca alcuni slogan di Lega e M5s ma è molto lontana da quella di Confindustria. Come mai tra gli imprenditori la posizione “No euro” ha pochi sostenitori?
«Io ragiono con la mia testa e con l’evidenza dei fatti, non ho mai avuto alcuna appartenenza e non mi interessano aspetti partitici. Purtroppo Confindustria sul tema ha una posizione di chiusura assoluta ed incomprensibile, forse perché condizionata dai suoi soci dominanti rappresentati dalle grandi aziende di Stato attive nelle comunicazioni, nell’elettricità e nell’energia fortemente indebitate in euro sui mercati stranieri, perciò a forte rischio in caso di uscita dell’Italia. Dispiace però che una gran parte di industriali veri continui a non capire una verità così lampante e preferisca conferire il cervello all’ammasso. Gli industriali pensano ancora che le svalutazioni del passato fossero regali indebiti all’economia, quando erano semplicemente involontari risarcimenti compensativi delle zavorre create da un sistema politico-finanziario inefficiente. L’Italia non avrà alcuna ripresa senza uscire dall’euro, il sistema produttivo si atrofizzerà ulteriormente, la disoccupazione aumenterà ancora così come l’emigrazione dei migliori, e tutto ciò senza rendere un vero servizio agli odierni creditori (detentori di titoli di stato, pensionati, detentori di azioni bancarie, ecc.), perché il voto greco ci ricorda che per ripagare il proprio debito si deve essere vivi e tonici, si deve produrre ricchezza, quella che la parità dei cambi impedisce all’Italia di fare. L’euro è una strada senza sbocco. Pensiamo alle patetiche previsioni dei centri studi, delle categorie, del governo, regolarmente sbeffeggiate dalla realtà dei numeri. La verità che non si vuole amettere è che ormai i crediti, i titoli di stato, i valori cartacei, incorporano una perdita pesante che si vuole ostinatamente esorcizzare e rinviare: così sull’altare del pareggio di bilancio statale e dei valori cartacei si sacrificano il lavoro e l’economia reale, mentre case, stabilimenti, terreni, aziende, beni reali, valgono ormai la metà di dieci anni fa. L’Italia nell’euro è un’irresponsabile operazione tentata per rimediare al fallimento istituzionale e politico della repubblica italiana affidandosi al vincolo esterno, cioè al governo degli stranieri senza però darne seguito con le riforme, un disastro che ricorda quello della “quota novanta” mussoliniana che portò all’IRI di Beneduce».